giovedì 5 novembre 2009

Le eccellenze sono distribuite...

L'altro giorno mi sono ritrovato a leggere un blog. Il post che più mi ha colpito intende sostenere come, molto spesso, i problemi reali di comunicazione dipendano soltanto dalla nostra innata tendenza a percepire i pareri altrui come una presa di posizione sul fatto che i loro modi di vedere siano migliori dei nostri. E che sarebbe tutto più facile se capissimo che ogni parere è "giusto" nel momento in cui deriva da un ragionamento personale e che scambiarsi pensieri è un modo per imparare crescere e non certo per "subire" gli altri. Queste alcune delle efficentissime parole dell'autore stesso:
Sto scrivendo e cercando di capire una cosa, che è resa complicata dalla nostra tendenza a discutere più le parole che il loro significato. Inciso: io credo che il 70% delle cose di cui si discute sia fuorviato da equivoci di significato, in buona o cattiva fede. Comunque, io ho sempre pensato che ognuno di noi pensa – in misure diverse, con più o meno dubbi e disponibilità a cambiare idea – che le sue opinioni e ragioni abbiano un fondamento, e quindi siano più motivate di altre. Quindi non sono migliori “in quanto sue”, ma in quanto ci ha pensato, almeno un po’. Voglio insomma dire che ognuno attribuisce una “superiorità” alla sua opinione, visto che ce l’ha. Poi ci possono essere la spocchia, la supponenza, la presunzione, la rigidità: ma avere un’opinione e pensare che sia la migliore tra quelle di propria conoscenza non solo non è esecrabile, ma è ovviamente normale.
[...] Forse pensiamo che l’umiltà sia diventata troppo invisibile nel casino generale per poter essere notata e diventare notevole: e quindi ci sentiamo costretti a esibire noi stessi, perché altrimenti tutta la nostra sapienza e le nostre qualità non le noterebbe nessuno. È lo stesso meccanismo di quelli che urlano nei dibattiti televisivi solo perché urlano tutti gli altri.
In questo sistema continuamente competitivo in cui ogni spazio e visibilità ottenuta da un altro sono lo spazio e visibilità che sto perdendo io, l’eventualità che qualcuno ci dica cose che non sappiamo corrisponde a un’ammissione di sconfitta invece che a un implicito successo. Non so se sbaglio, ma mi pare somigli all’orgoglio del non voler accettare aiuto, o regali, o soldi: che tu mi dia dei soldi di cui ho bisogno sarebbe forse utile, ma mi offende. Perché corrisponde a una dimostrazione di non essere in grado di farcela da solo. Ma così facendo si perde per strada il primo meccanismo di diffusione del sapere: il ricevere lezioni, insegnamenti, informazioni, opinioni diverse, non può essere umiliante in quanto tale.
[...] In realtà, e lo capite da soli, non siamo così stupidi: quello che non accettiamo non è nuovo sapere, nuove informazioni, nuove comprensioni delle cose che ci renderanno migliori o che ci potremo almeno rivendere al giro successivo. Quello che non accettiamo è che siano “lezioni”, e che il nostro riceverle ci ponga in una condizione subordinata rispetto a chi ce le dà: e che ci sembra subordinata in modo insopportabilmente umiliante. Ma in realtà non è così: anche banalmente, su ogni tema, su ogni ambito, su ogni esperienza, le eccellenze sono distribuite. Il nostro odioso e maleducato vicino di pianerottolo può essere il maggior esperto del mondo di solai in legno. La sua opinione sulla trave che ci si è incrinata in salotto non sarà meno fondata perché è odioso e maleducato, e non ci sarà meno utile per questo.

...mmm... molto interessante...
(Comunque l'intero post lo trovate qui:

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